Nell’imponente parterre della drammaturgia del Novecento, Neil Simon si erge come un autentico giocoliere dell’animo umano, capace di intrecciare la levità di una scrittura arguta con riflessioni così profonde che rischiano di toccare l’anima anche al più cinico spettatore. The Sunshine Boys, nato nel 1972 e subito elevato al rango di classico, è il suo ennesimo colpo di genio: una pièce che mescola ironia e malinconia, comicità travolgente e spietati affondi sulle fragilità umane, il tutto con la grazia di un equilibrista che cammina sulla corda della nostalgia.
Il titolo italiano, I ragazzi irresistibili, regala quel pizzico di charme beffardo che già di suo attraversa il testo come un refolo d’aria in una stanza chiusa. La celebrità della pièce ha trovato nuova linfa vitale grazie al celebre adattamento cinematografico del 1975 diretto da Herbert Ross, con due titani della comicità come Walter Matthau e George Burns. Al centro di questo ingranaggio teatrale perfetto ci sono due vecchie glorie del vaudeville americano, Willy Clark e Al Lewis, un tempo coppia inseparabile sulle assi del palcoscenico e ora separati da un’antica lite che nessuno ricorda davvero.
La trama si dipana tra un’irriverente resa dei conti e un malinconico confronto con il tempo che passa: i due vengono convocati per una trasmissione televisiva celebrativa, ma la proposta risveglia vecchi rancori, rianima rivalità e li costringe a fare i conti con la perdita della gloria e la difficoltà di ritrovare una sintonia ormai consunta. Simon non si limita a intrattenere: le battute al fulmicotone e le situazioni comiche irresistibili si intrecciano con una struttura che, nella sua apparente leggerezza, scava senza pietà nelle pieghe più intime dell’animo umano, dove il riso si fonde inesorabilmente con la lacrima.
Massimo Popolizio, al timone di questa macchina teatrale, ne coglie ogni sfumatura e trasforma il palco del Teatro Argentina in un prisma emotivo, capace di scomporre ogni sentimento in una sinfonia di luci e ombre. Il vaudeville si trasfigura in una metafora della vita stessa: un gioco di riflessi, in cui la comicità diventa maschera e specchio, rivelando le fragilità più profonde dell’essere.
La scenografia di Maurizio Balò, con la sua precisione poetica, è un personaggio a sé. Una stanza d’albergo consunta, dove la tappezzeria scollata diventa metafora della memoria che sfuma, una finestra opaca riflette il tempo più che la luce, e arredi logori sussurrano storie di un passato che ha conosciuto giorni migliori. È un capolavoro visivo che incornicia con eleganza le vite decadenti dei protagonisti.
Franco Branciaroli e Umberto Orsini si muovono con la disinvoltura di chi è maestro della scena. Branciaroli, nei panni di Willy, è l’incarnazione vivente della disillusione, un uomo ferito dall’oblio ma ancora caparbio nel non arrendersi al proprio destino. Il suo sarcasmo pungente si intreccia con una malinconia che lascia il pubblico in bilico tra il sorriso e il groppo in gola. Orsini, invece, regala al personaggio di Al una grazia quasi eterea, come se il tempo si fosse fermato per lui solo per concedergli un ultimo, struggente ballo. Ogni parola, ogni sguardo, ogni pausa è carico di significati, un mosaico di emozioni che si ricompone davanti agli occhi del pubblico con una naturalezza disarmante.
Il cast di supporto non è da meno: Flavio Francucci, nel ruolo del nipote Ben, riesce a modulare con maestria affetto e esasperazione, Chiara Stoppa, nei panni dell’infermiera, brilla con un cinismo travolgente e una precisione comica invidiabile, mentre Emanuela Saccardi ed Eros Pascale, seppur in ruoli più marginali, lasciano il segno con interpretazioni vivide e memorabili.
L’attenzione ai dettagli tecnici è un trionfo di armonia: i costumi di Gianluca Sbicca catturano con efficacia i diversi registri narrativi, le luci di Carlo Pediani disegnano atmosfere che amplificano la drammaticità e il suono curato da Alessandro Saviozzi si fonde perfettamente con il tessuto drammaturgico. Anche i cambi di scena, eseguiti a vista da personaggi che sembrano usciti da un fumetto noir, aggiungono un tocco di ironia che sottolinea l’amore per la perfezione formale.
Quando il sipario si chiude, il successo è inevitabile: applausi scroscianti e standing ovation celebrano gli attori, richiamati in scena più volte, mentre il pubblico, emozionato e conquistato, lascia il teatro con la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di unico. I ragazzi irresistibili non è solo uno spettacolo: è una finestra aperta sull’anima umana, un invito a riflettere, sorridere e lasciarsi travolgere dalla magia senza tempo del teatro. Photocredit @NicolòFeletti.