Nel cuore della scena, una piccola automobile rossa si fa immagine di un tempo sospeso: icona della quotidianità e insieme dispositivo della memoria, in bilico tra la fissità del passato e la fluidità del presente. “Il Grande Vuoto”, capitolo conclusivo della “Trilogia del Vento” di Fabiana Iacozzilli, in scena al Teatro Vascello, si dispiega come una partitura di segni, in cui ogni elemento concorre a costruire un universo emotivo e simbolico capace di travalicare il mero realismo.
L’incipit dello spettacolo si apre su un microcosmo domestico: due corpi, Giusi Merli ed Ermanno De Biagi, abitano una dimensione dove il gesto quotidiano – raccogliere occhiali, sistemare arance cadute, muoversi attorno all’auto – acquista un valore ineludibile. Ogni azione, coreografata con precisione chirurgica, si carica di un potere evocativo che anticipa il progressivo slittamento della realtà. La dissoluzione della macchina in una nube di fumo segna il passaggio a un piano onirico: il mondo familiare si sfalda, la memoria si frantuma in schegge di passato.
La drammaturgia di Linda Dalisi, costruita su testimonianze raccolte in RSA, innesta un tessuto linguistico stratificato in cui la parola non è mai mero veicolo narrativo, ma vibrazione, segnale, eco. Il testo si intreccia con il corpo degli attori, in un processo di significazione continua: il quotidiano diventa simbolo della perdita, il ricordo si incarna in oggetti, spazi e azioni. Il montaggio scenico è una partitura in cui ogni elemento – dalle luci agli oggetti, dai suoni alle proiezioni video – si stratifica in una molteplicità di livelli espressivi.
Giusi Merli, con la sua chioma argentea e lo sguardo smarrito, attraversa la scena come un fantasma della memoria, sospesa tra un passato che la abita e un presente che le sfugge. Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti, nei ruoli dei figli, alternano stati d’animo contrastanti, tra rabbia, rassegnazione e tenerezza. Mona Abokhatwa, nei panni della badante, diventa il punto fermo di un equilibrio impossibile, una presenza silenziosa che osserva, raccoglie, accoglie.
La luce e il colore si fanno strumenti di una poetica della percezione: i chiaroscuri accentuano la distanza tra il visibile e l’invisibile, mentre le proiezioni in bianco e nero amplificano il senso di un tempo che si sgretola, tracciando una tensione continua tra la scena e la sua evocazione filmica. Il contrasto tra il bianco e nero del video e la saturazione cromatica del palco diviene metafora dell’abisso tra realtà e ricordo, tra permanenza e dissoluzione.
Il suono abita lo spazio scenico con la stessa pregnanza del visibile: il ticchettio di un orologio, il fruscio delle buste della spesa, il rombo lontano di un motore costruiscono un paesaggio acustico che avvolge lo spettatore. I silenzi, dosati con millimetrica sapienza, assumono il valore di veri e propri segni, tramutandosi in spazi di attesa, di sospensione, di vuoto.
Nel finale, Giusi Merli, avvolta in una tovaglia-mantello, recita frammenti del “Re Lear” sotto una pioggia dorata. Il teatro si fa rito, resistenza al nulla, celebrazione della memoria come unico antidoto all’oblìo. L’immagine della madre smarrita nel vortice dei ricordi si sublima in un ultimo gesto di ribellione all’ineluttabile.
“Il Grande Vuoto” non è solo uno spettacolo, ma un atto di percezione amplificata, un dispositivo teatrale che trasforma il tempo in materia scenica e la memoria in esperienza collettiva. L’arte di Fabiana Iacozzilli si conferma capace di restituire al teatro la sua funzione primaria: interrogare il presente attraverso il segno, rivelare la vertigine dell’esistere e dell’essere ricordati.