Due drammi di clausura e rivelazione, due viaggi interiori che esplorano i confini estremi dell’anima: Suor Angelica di Giacomo Puccini e Il Prigioniero di Luigi Dallapiccola, presentati in dittico al Teatro dell’Opera di Roma, chiudono il progetto Trittico ricomposto con un accostamento sorprendentemente coerente e profondamente significativo. Pur così distanti nella lingua musicale e nel contesto storico, le due opere condividono un’identica architettura drammaturgica verticale, costruita su un’illusione di salvezza che si rovescia, in un caso, in estasi e nell’altro in disperazione.
La direzione musicale di Michele Mariotti si è imposta per rigore e tensione emotiva: in Puccini ha cercato la trasparenza delle armonie, la rarefazione mistica delle dinamiche, il respiro liturgico del dramma, valorizzando l’intarsio timbrico dei gravi e la cantabilità dei legni. In Dallapiccola ha scolpito le linee seriali con lucidità quasi chirurgica, alternando struttura e lirismo, senza appiattire la tensione teatrale. Nei silenzi, nei respiri tra una battuta e l’altra, si avvertiva la volontà di abitare le partiture, di farle germinare dal dentro.
L’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma ha risposto con compattezza e raffinatezza ad entrambi i registri. In Suor Angelica ha brillato per morbidezza dei tappeti armonici e cura delle sfumature dinamiche, soprattutto nell’intermezzo e nel finale. In Il Prigioniero ha affrontato con precisione matematica l’intelaiatura seriale, mantenendo una densità timbrica viva, capace di restituire l’angoscia e la vertigine della prigionia. Particolarmente efficaci i fiati, equilibrati nei cluster atonali e raffinati nelle tessiture contrappuntistiche. Un’orchestra matura, oggi capace di sostenere repertori diversissimi con pari slancio.
Yolanda Auyanet ha costruito una Suor Angelica dolente e autentica, con una linea vocale robusta e centrata, un fraseggio vibrante e una forza espressiva che ha trasformato il dolore in canto sacro. La resa emotiva, intensa e generosa, ha talvolta sacrificato la purezza della linea, ma ha restituito un personaggio autenticamente tragico. Marie-Nicole Lemieux, Zia Principessa di raggelante intensità, ha scolpito una figura monolitica grazie a una voce contraltile monumentale e a un controllo del colore vocale impeccabile. Nel quadro drammaturgico tutto femminile di Suor Angelica, alcune presenze sono apparse solide ma non tutte incisive. Annunziata Vestri (La Badessa) ha offerto una prova controllata e autorevole, ma un po’ trattenuta nei passaggi lirici. Irene Savignano (Suora Zelatrice) ha mostrato fraseggio pulito e colore chiaro, ma proiezione disomogenea nei gravi. Carlotta Vichi (Maestra delle Novizie) ha cantato con correttezza ma senza slancio espressivo: la sua linea vocale, pur precisa, è sembrata priva di intensità affettiva. Più convincenti i ruoli brevi, come Jessica Ricci, Ilaria Sicignano e Laura Cherici, efficaci nei momenti d’insieme. Mattia Olivieri, nel ruolo del Prigioniero, ha offerto una prova magistrale, affrontando la complessa tessitura del personaggio con timbro ricco, proiezione sicura e un fraseggio scolpito.Ángeles Blancas ha dato corpo a una Madre intensa e sofferta, con timbro brunito e dinamiche scolpite con intelligenza. John Daszak, nei doppi panni del Carceriere e del Grande Inquisitore, ha mostrato versatilità e intelligenza teatrale, dando vita a due personaggi netti e inquietanti, con voce ben modellata sul testo.
L’impianto scenico di Anna Kirsch si articola in due visioni contrastanti, ma complementari. In Suor Angelica, un giardino fiorito, attraversato da luce morbida e filtrata, suggerisce la tensione tra dolore terreno e aspirazione al divino, culminando nella struggente immagine finale della protagonista come figura sacra immersa nella natura. In Il Prigioniero, lo spazio si fa cupo e chiuso: pareti nere scandite verticalmente e una griglia luminosa sovrastante trasformano la scena in un carcere mentale e metafisico. L’essenzialità della regia di Calixto Bieito si integra con forza a questi ambienti, lasciando che luci e spazi narrino il conflitto tra speranza e condanna, senza orpelli, ma con potente rigore simbolico. I costumi di Ingo Krügler, sobri e fuori da ogni epoca, hanno rafforzato la verticalità dei personaggi e la ritualità della scena. Fondamentale il disegno luci di Michael Bauer: in Puccini luminoso, epifanico, capace di evocare l’interiorità della protagonista; in Dallapiccola buio, angolare, illusorio, vero strumento drammatico.
La regia di Calixto Bieito, coerente con la sua poetica spoglia e radicale, ha evitato ogni sentimentalismo per concentrarsi sulla tensione simbolica, scavando nei meccanismi interiori della colpa, della speranza, del disincanto. Il Teatro dell’Opera di Roma conclude con questo dittico un percorso coraggioso e ispirato, riconsegnando al Trittico non solo il suo significato storico, ma la sua funzione profetica: ricordarci che l’arte, quando è vera, ci parla delle cose ultime. E qui, nel buio denso della sala, la musica si è fatta carne e spirito, e ha colpito il pubblico nel profondo, come solo le grandi opere sanno fare. Photocredit Fabrizio Sansoni
- Alberto De Sanctis
- Ángeles Blancas
- Anna Kirsch
- Annunziata Vestri
- Calixto Bieito
- Carlotta Vichi
- Ciro Visco
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