“Vermiglio”: Un Viaggio Intimo tra Memoria e Resilienza Femminile durante l’Ultima Guerra

Maura Delpero racconta la storia di una comunità montana nell’Italia del 1945, dove le donne diventano custodi di speranza e di resistenza in un mondo sospeso tra pace ritrovata e perdite intime.

Nel 1945, la piccola comunità di Vermiglio, incastonata tra le Alpi italiane, si trovava a vivere uno dei momenti più cruciali e delicati della sua storia. Situato in una zona di confine tra l’Italia e l’Austria, il paese aveva già conosciuto la devastazione durante la Prima Guerra Mondiale, e ora, mentre la Seconda Guerra Mondiale volgeva al termine, la tensione e l’incertezza pervadevano ogni aspetto della vita quotidiana. Vermiglio, come molte altre località alpine, era attraversato da sentimenti contrastanti: da un lato, l’attesa per la fine del conflitto e il ritorno alla normalità, dall’altro, la paura per ciò che sarebbe accaduto in un mondo ancora incerto e in piena trasformazione.

Il paese, lontano dai grandi centri urbani e dai principali teatri di guerra, viveva in una sorta di isolamento sospeso, in cui la guerra era percepita attraverso gli echi lontani delle battaglie, le assenze dei giovani partiti per il fronte, e le notizie incerte che arrivavano con il contagocce. In questo contesto, le donne di Vermiglio, insieme agli anziani e ai bambini, si trovarono a svolgere un ruolo fondamentale nel mantenere intatta la vita della comunità, affrontando le difficoltà quotidiane con coraggio e determinazione. Mentre il mondo esterno era sconvolto dagli ultimi colpi di coda del conflitto, all’interno delle case di Vermiglio si viveva una guerra diversa, fatta di attese, di speranze, e di lotta per la sopravvivenza.

Vermiglio,” di Maura Delpero, presentato al Festival del Cinema di Venezia, è un film che esplora in profondità il legame tra memoria, identità e territorio.

Il film si sviluppa attorno a una potente metafora naturale: in quattro stagioni, la natura compie il suo ciclo. Una ragazza può crescere e diventare donna, un ventre può gonfiarsi e dare vita a una nuova creatura. In quattro stagioni, si può smarrire il cammino di casa o attraversare mari sconosciuti verso terre lontane. E, in quel tempo, si può morire e rinascere. In questo arco temporale così denso di significati, “Vermiglio” racconta della trasformazione, della crescita e della perdita, sia individuale che collettiva.

La storia si concentra su una famiglia che, nel cuore dell’ultimo anno di guerra, vede giungere un soldato rifugiato. Con il suo arrivo, un paradosso del destino si compie: mentre il mondo ritrova la pace, la famiglia perde la propria. Attraverso questa trama, il film offre un ritratto intimo e delicato di una comunità montana, che vive la guerra da una distanza apparente, ma la sente nelle ossa, nelle case fredde, nei giorni scanditi dal suono delle campane e dalle notizie incerte che arrivano da lontano.

Il piccolo paese così si trasforma nel simbolo di una nazione spezzata e stanca, ma in cerca di una nuova identità. Questo microcosmo montano diventa una rappresentazione della complessa situazione italiana: un paese frammentato tra le forze alleate, la Resistenza partigiana, e gli ultimi residui del regime fascista. La comunità locale riflette una struttura sociale tradizionale, dove la vita quotidiana è scandita dai ritmi della natura e dalle regole imposte dalla sopravvivenza in montagna. Tuttavia, anche questo luogo apparentemente isolato subisce gli effetti dei grandi eventi storici: l’arrivo appunto di un soldato rifugiato, ad esempio, rappresenta l’intrusione della guerra nella vita di tutti i giorni, sconvolgendo l’equilibrio della famiglia protagonista e del paese intero.

Nel film, le donne rivestono un ruolo fondamentale, sia nella narrazione sia nel contesto sociale rappresentato. Mentre gli uomini sono assenti, morti al fronte o dispersi, sono le donne a tenere insieme la comunità, a svolgere i lavori quotidiani, e a prendersi cura dei bambini e degli anziani. La regista, attraverso la sua narrazione, evidenzia come la guerra, pur lontana dalle battaglie principali, sia vissuta intensamente dalle donne rimaste a casa, che devono affrontare non solo la solitudine e la paura di perdere i propri cari, ma anche le difficoltà quotidiane di gestione della famiglia e della casa in tempi di scarsità e di incertezza.

La cucina diventa il loro campo di battaglia, dove si affrontano problemi pratici come la mancanza di cibo, il freddo, e la cura dei neonati, spesso morti per le “coperte troppo corte.” Queste donne non sono solo spettatrici passive degli eventi, ma agiscono, proteggono, e mantengono in vita le tradizioni e la memoria della comunità, diventando simboli di resilienza e di continuità.

Delpero mette in luce il paradosso del loro ruolo: mentre il mondo esterno cerca una soluzione militare ai conflitti, queste donne costruiscono una forma di resistenza attraverso l’atto quotidiano di sopravvivere e di prendersi cura della loro famiglia e della loro comunità. Esse rappresentano la vera forza che sostiene la società in un momento di grande crisi, dove il patriarcato tradizionale viene temporaneamente sospeso, permettendo alle donne di emergere come leader informali e custodi della memoria collettiva.

Attraverso la descrizione di donne che “si sono temute vedove,” che hanno “guardato il mondo da una cucina,” e che hanno visto “i figli mai tornati,” Delpero rende omaggio alla resilienza femminile, al loro coraggio e alla loro capacità di resistere e di adattarsi in condizioni estremamente difficili.

Maura Delpero, nel suo commento, rivela le radici personali e intime di questa storia. “Mio padre ci ha lasciati un pomeriggio d’estate,” racconta. “Prima di chiuderli per sempre, ci ha guardati con occhi grandi e stupiti di bambino.” Il film nasce da un ricordo del padre, che nei suoi ultimi giorni sembrava tornato a un’infanzia perduta, fuso tra le età della vita. Nei sogni della regista, il padre torna nella casa della sua infanzia a Vermiglio, con sei anni e “due gambette da stambecco,” portando sotto il braccio il film stesso: una storia di quattro stagioni nella vita della sua grande famiglia.

Vermiglio è un paesaggio dell’anima,” spiega Delpero, “un ‘lessico familiare’ che vive dentro di me, sulla soglia dell’inconscio.” Il film diventa così un atto d’amore per il padre, la sua famiglia e il loro piccolo paese di montagna, immerso in un tempo sospeso tra passato e presente. Delpero descrive un mondo fatto di odori semplici – legna bruciata e latte caldo nelle mattine gelate – e di persone che vivono in attesa, in assenza, nel desiderio di ritorni e riunioni.

“Vermiglio” è, dunque, un film che attraversa un tempo personale per omaggiare una memoria collettiva. È un’esplorazione poetica e intima della vita di una comunità montana, una riflessione profonda sulla resilienza umana e sulla capacità di trovare luce anche nel cuore delle tenebre. Il film diventa così una celebrazione del loro ruolo cruciale, non solo nel mantenere intatta la struttura familiare e sociale, ma anche nel preservare l’anima stessa del paese, un “paesaggio dell’anima” che vive nei gesti quotidiani, negli odori, nei suoni e nelle memorie che solo loro sanno tramandare.