Una retrospettiva sobria e rivelatrice riscopre il percorso silenzioso di un artista appartato, tra pittura, grafica e affetti, nell’Italia del Novecento
«Ciò che l’uomo possiede davvero è solo ciò che non mostra». Questa frase, attribuita a Valéry, potrebbe introdurre con esattezza l’universo silenzioso e stratificato di Nino Bertoletti, a cui la Galleria d’Arte Moderna di Roma dedica, fino al 14 settembre 2025, una retrospettiva ampia e misurata. Non un’operazione celebrativa, bensì un gesto di risarcimento intellettuale verso un artista che ha vissuto la pittura come discreta espressione di una complessità interiore e di un’acuta lettura del proprio tempo.
A differenza di molte esposizioni che tentano il colpo di teatro, qui tutto è affidato alla coerenza del progetto curatoriale firmato da Pier Paolo Pancotto, che sceglie il passo asciutto e il rigore storico per restituire Bertoletti nella sua essenza più intima: quella di un intellettuale visivo, che attraversa il Novecento senza mai adottare pose o aderire a manifesti. Pittore, collezionista, illustratore, studioso: la sua identità plurale si compone sala dopo sala in un percorso fluido, sobrio, privo di retorica.
La mostra si apre con i lavori giovanili degli anni Dieci e Venti, ancora vicini alla cultura della Secessione ma già animati da una volontà di strutturazione compositiva che si consoliderà nei decenni successivi. Non c’è ricerca di stupore nei ritratti e nei paesaggi di questa prima fase: c’è piuttosto una compostezza severa, una riflessione sull’equilibrio, sull’autonomia della pittura rispetto alla narrazione.
Nei dipinti degli anni Trenta, esposti nella seconda sala, Bertoletti raggiunge una maturità espressiva che combina una chiara struttura formale con una poetica della quotidianità: interni essenziali, corpi che si offrono alla tela con dignitosa riservatezza, nature morte costruite per sottrazione. È qui che si forma una cifra stilistica personale: non tanto un’estetica riconoscibile quanto un’etica della rappresentazione, in cui ogni forma è necessaria, ogni dettaglio ha un peso misurato.
Il dopoguerra porta con sé una trasformazione percettibile. I quadri si fanno più densi, il colore si carica di materia, la pennellata si fa a tratti più libera, come se l’ordine interiore del pittore si confrontasse con le fratture del tempo. In queste opere – alcune delle quali inedite – si legge il passaggio da un’arte descrittiva a un linguaggio che cerca l’archetipo più che il dato. Bertoletti non idealizza, ma eleva: il paesaggio diventa luogo mentale, i nudi figure mitiche, le presenze un’eco del classico filtrato dal dolore della storia.
Particolarmente efficace l’attenzione riservata alla produzione grafica, spesso ignorata in precedenti ricognizioni critiche. Una selezione di disegni e illustrazioni – esposti in modo chiaro e ben distanziato – rivela un tratto essenziale, quasi architettonico, che riflette l’interesse dell’artista per la costruzione dell’immagine come pensiero visivo. Non si tratta di opere minori: in molti casi, anticipano soluzioni poi sviluppate nelle tele, suggerendo un Bertoletti pensatore dell’immagine prima ancora che pittore.
Degno di nota è anche l’impianto espositivo. Le opere respirano, non sono incasellate né sovraccaricate da apparati testuali invasivi. L’illuminazione, ben calibrata, non interferisce con la superficie pittorica e consente di cogliere ogni variazione tonale. Il percorso cronologico è lineare ma mai meccanico: l’alternanza tra le diverse stagioni della produzione consente una lettura ritmata e approfondita, con pause meditative che restituiscono dignità anche alle opere meno note.
Al centro della narrazione resta il rapporto affettivo e professionale con Pasquarosa, pittrice e compagna di vita. Le numerose raffigurazioni della moglie – da adolescente fino agli anni maturi – compongono un diario visivo che è anche testimonianza di un amore intellettuale. Pasquarosa non è mai solo modella, ma presenza che abita la tela con naturalezza e verità. In lei si riflette il nucleo affettivo di un artista che ha scelto di abitare la pittura come estensione del proprio vissuto.
Il catalogo edito da Dario Cimorelli Editore accompagna con misura e precisione il progetto espositivo. I saggi di Flavia Matitti, Francesca Romana Morelli e Dina Saponaro, tra gli altri, evitano l’eccesso interpretativo, preferendo la ricostruzione documentaria e l’analisi ravvicinata. È un merito raro, oggi, quando la critica tende a sovrastare l’opera con narrazioni ingombranti.

In definitiva, Nino Bertoletti. 1889–1971 non è soltanto una mostra ben costruita, ma un esercizio di rispetto. Per l’artista, innanzitutto, e per il visitatore, che non viene mai trattato come spettatore da sedurre, ma come lettore da accompagnare. In un tempo che spesso predilige la spettacolarizzazione dell’arte, questa esposizione si muove nella direzione opposta: ascolta, osserva, propone.
E così, senza rumore, restituisce al pubblico un artista che ha saputo coltivare la propria coerenza senza ostentazione. Un autore per cui la pittura non fu mai una strategia, ma un destino discreto. E che oggi torna, finalmente, a parlarci nella lingua limpida della verità visiva.