Il DNA svela le origini e i legami delle vittime dell’eruzione del Vesuvio, ribaltando vecchie convinzioni e rivelando una Pompei multietnica e cosmopolita
L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. non ha soltanto lasciato un’impronta indelebile sulla storia del mondo antico, ma ha anche congelato un istante di vita, tragico e toccante, che le generazioni successive hanno cercato di decifrare. Grazie a studi innovativi, come quello recentemente pubblicato su Current Biology, stiamo riscoprendo non solo le vite degli abitanti di Pompei, ma anche la complessità delle loro identità e dei legami che un tempo sembravano evidenti, ma che ora si rivelano molto più sfumati e complessi. Ogni elemento della storia è un segno, un codice che richiede una nuova interpretazione alla luce dei dati scientifici più recenti.
Il nuovo studio, frutto della collaborazione tra le università di Harvard, Firenze e altri istituti europei e statunitensi, ha analizzato il DNA delle ossa ritrovate all’interno dei celebri calchi delle vittime pompeiane. I calchi, a lungo intesi come simboli pietrificati di una tragedia umana, si rivelano ora essere non solo contenitori di resti fisici, ma anche scrigni di informazioni capaci di sovvertire narrazioni consolidate. Non più semplici immagini romantiche del passato, i calchi ci spingono verso una lettura più ricca e stratificata.
I calchi delle vittime non sono corpi pietrificati, come spesso si crede, ma rappresentazioni ottenute versando gesso nelle cavità lasciate dai corpi nello strato di pomici e cenere. Questo processo, inventato da Giuseppe Fiorelli nel XIX secolo, ha permesso di catturare le pose finali delle vittime, congelando per sempre un attimo di fuga, di disperazione, o forse di rassegnazione. Tuttavia, è essenziale ricordare che questi calchi sono il prodotto di un’epoca in cui la metodologia archeologica era ancora in fase embrionale: molte pose sono state rielaborate per enfatizzare la drammaticità, costruendo storie più vicine al melodramma che alla verità storica.
Gli studiosi ottocenteschi, più attenti a stupire il pubblico che a perseguire un rigoroso metodo scientifico, hanno creato narrazioni attorno ai calchi, conferendo a queste figure mute ruoli e relazioni che, alla luce delle nuove evidenze scientifiche, risultano essere costruzioni arbitrarie. La scienza moderna, però, ci offre un nuovo strumento per avvicinarci alla realtà storica: il DNA. Attraverso l’analisi genetica, possiamo scoprire dettagli sorprendenti che ci aiutano a rivedere radicalmente il passato.
Lo studio del DNA ha portato alla luce dati che stravolgono molte delle convinzioni tramandate fino a oggi. Un esempio emblematico è il gruppo ritrovato nella cosiddetta “Casa del bracciale d’oro”. Nel 1974, quattro individui vennero trovati insieme: due adulti e due bambini, con uno dei piccoli apparentemente in braccio a uno degli adulti, che indossava un prezioso bracciale d’oro. La ricchezza dell’ornamento e la disposizione dei corpi avevano portato gli archeologi a ipotizzare che si trattasse di una famiglia. Tuttavia, l’analisi genetica ha smentito tale interpretazione: non solo non c’era alcun legame familiare tra i quattro, ma l’individuo con il bracciale – creduto essere la madre – era in realtà un uomo.
Questo episodio illustra come il passato possa spesso deluderci nelle nostre aspettative. La figura del padre protettivo o della madre affettuosa si dissolve sotto il rigore della scienza, lasciandoci con un mosaico di persone unite non da legami di sangue, ma da circostanze fortuite e imprevedibili. La bellezza di questa complessità risiede proprio nell’impossibilità di ridurre le vite umane a semplici schemi predefiniti. Le evidenze archeogenetiche ci mostrano come spesso le relazioni tra gli individui siano state mal interpretate, basate su indizi visivi e stereotipi culturali piuttosto che su dati scientifici solidi.
Allo stesso modo, i ritrovamenti della “Casa del criptoportico” offrono un ulteriore esempio di quanto le apparenze possano ingannare. Due individui, ritrovati abbracciati, sono stati descritti come due sorelle. Ma anche qui il DNA ha svelato una realtà diversa: uno dei due individui era un uomo, mentre l’identità biologica dell’altro non è stata determinata con certezza. Questo dato, lungi dal ridurre l’impatto emotivo della scoperta, ci ricorda come la nostra visione del passato sia sempre parziale e frammentaria, soggetta a continue revisioni. Questo abbraccio potrebbe non rappresentare un legame familiare, ma un tentativo di conforto reciproco di fronte alla catastrofe imminente, lasciandoci con una scena ancora più umana e toccante.
Un aspetto particolarmente affascinante dello studio è la possibilità di ricostruire l’origine etnica di alcune delle vittime. Le analisi del DNA hanno dimostrato che gli individui della “Casa del bracciale d’oro” avevano legami genetici con le popolazioni dell’Africa settentrionale e del Mediterraneo orientale, un dato che conferma il cosmopolitismo dell’Impero Romano nel I secolo d.C. Pompei, lungi dall’essere una città isolata, era un crogiolo di culture, etnie e identità diverse, un microcosmo dell’impero stesso. Questa scoperta mette in luce l’estrema mobilità delle popolazioni romane, rendendo visibile quanto la società dell’epoca fosse interconnessa su vasta scala.
L’individuo maschile col bracciale d’oro aveva tratti genetici compatibili con le popolazioni del Nordafrica, mentre l’individuo abbracciato della “Casa del criptoportico” mostrava segni di un’origine mediorientale. Questo elemento ci consente di immaginare Pompei non come un mondo cristallizzato nel tempo, ma come una realtà dinamica, pulsante di vita e scambi culturali. Gli scambi commerciali, le migrazioni, e le rotte mercantili del Mediterraneo avevano fatto sì che uomini e donne di diverse origini giungessero a Pompei, stabilendo legami, intrattenendo rapporti economici e culturali, integrandosi in un tessuto sociale variegato.
Il DNA antico ci fornisce la prova tangibile di queste connessioni. Esso ci mostra come i cittadini di Pompei potessero avere ascendenze che attraversavano tutto il bacino del Mediterraneo, mettendo in crisi l’idea di una città omogenea e offrendo invece l’immagine di una comunità multietnica. Le storie di questi individui non erano isolate, ma parte di una narrazione più ampia che abbracciava le rotte del commercio e dell’espansione imperiale. Il loro sangue, mescolato con quello di popoli diversi, rappresenta una testimonianza dell’integrazione che caratterizzava la vita all’interno dell’impero.
Il passato non è mai univoco e definitivo. Ogni scoperta può cambiare la configurazione dell’intero mosaico, ogni dato genetico apre nuovi orizzonti interpretativi. L’importante è mantenere uno sguardo critico e aperto, evitando di farsi sedurre da interpretazioni romantiche e ricordando che il compito dello storico è cercare incessantemente il significato dietro ai segni tramandati. La scienza, in questo senso, non demolisce il fascino del passato, ma anzi lo amplifica, restituendoci un quadro ancora più ricco e pieno di sfumature, un affresco che non smette di sorprenderci e di porci nuove domande. La storia di Pompei, dunque, non è mai finita: continua a vivere ogni volta che la interroghiamo con strumenti nuovi, e ogni risposta che riceviamo è solo il preludio a una domanda ancora più profonda.