Frammenti antichi, voci immortali: come sei enigmatiche statue della Città Eterna divennero il megafono del popolo contro papi, politici e ingiustizie.
A Roma, la città dove il marmo non è solo decorazione ma narrazione, persino le statue hanno trovato un modo per parlare. Non parliamo di monumenti celebrativi o busti solenni dedicati a eroi dimenticati, ma di frammenti antichi che, contro ogni logica, sono diventati il megafono di un popolo. Le statue parlanti di Roma, sei in tutto, sono il risultato di un connubio straordinario tra arte e dissenso, un fenomeno unico nel suo genere in cui il silenzio del marmo si è trasformato in voce di denuncia, satira e ironia.
Il contesto storico è importante. Ci troviamo nel XVI secolo, un’epoca in cui la censura ecclesiastica soffocava qualsiasi accenno di critica e il potere pontificio era più solido delle mura leonine. In un simile scenario, la satira trovò un modo creativo e geniale per aggirare i divieti: attraverso le statue. Non c’erano giornali satirici, né internet, né social media, ma c’era la parola, affidata a fogli anonimi che venivano affissi su queste figure di pietra. E così, statue come Pasquino, Marforio, Madama Lucrezia, Il Babuino, Il Facchino e L’Abate Luigi diventarono il centro di un fenomeno straordinario. Era come se il popolo avesse trovato in quei frammenti di marmo degli alleati, dei portavoce che, pur muti, dicevano tutto.
La più celebre di tutte è Pasquino, che si trova vicino a Piazza Navona, un po’ defilato e malconcio, come si addice a chi ha visto troppo. Non è altro che un frammento di una scultura, probabilmente raffigurante Menelao con il corpo di Patroclo, ma questo importa poco. Quello che conta è il ruolo che ha ricoperto dal 1501, anno in cui il cardinale Oliviero Carafa lo fece esporre pubblicamente. Da quel momento, Pasquino divenne il fulcro delle cosiddette pasquinate, biglietti satirici e critici che venivano affissi sulla statua. Qui si parlava di tutto: gli scandali del papato, le ingiustizie del potere, le miserie della politica. Nulla era sacro per Pasquino, perché nulla sfuggiva all’occhio del popolo romano.
Il linguaggio delle pasquinate era brillante, corrosivo, spesso in rima, e sempre anonimo. Una delle più celebri recitava: “Perché Pasquino, tu non parli più? / Perché sono stufo morto d’esser preso a cazzate!” Era un linguaggio che colpiva e faceva riflettere, capace di sfidare i potenti senza mai perdere l’eleganza della parola. Pasquino, in fondo, era l’incarnazione dello spirito romano: ironico, irriverente, ma anche profondamente intelligente.
Accanto a Pasquino, c’era Marforio, una figura altrettanto importante. Oggi lo trovi ai Musei Capitolini, ma un tempo stava in un cortile all’aperto e dialogava, idealmente, con Pasquino. Rappresenta una figura reclinata, forse il dio Oceano o un fiume, e la sua imponenza rifletteva la profondità dei suoi “pensieri”. Marforio era il contraltare di Pasquino, la voce che rispondeva, creando un dialogo satirico che animava la vita intellettuale di Roma. I loro botta e risposta erano celebri: “Pasquino, che novità?” chiedeva Marforio. “Nulla di buono, come sempre!” rispondeva il primo. Questo scambio non era solo ironia fine a se stessa, ma una vera e propria forma di resistenza culturale.
Madama Lucrezia, invece, si trova in Piazza San Marco, vicino a Piazza Venezia. È un busto femminile imponente, forse proveniente da una statua di Iside o di un’altra divinità romana. Il suo nome, secondo alcuni, deriva da Lucrezia d’Alagno, l’amante di Alfonso d’Aragona, ma il suo significato è ben più ampio. Madama Lucrezia rappresentava l’austerità del potere femminile, ma anche la capacità delle donne di osservare e giudicare senza necessariamente intervenire. I biglietti satirici affissi alla sua base spesso riflettevano un’ironia sottile, meno sferzante rispetto a quella di Pasquino, ma non per questo meno efficace.
E poi c’è Il Babuino, che come bellezza lascia molto a desiderare. Situato in Via del Babuino, questo sileno disteso fu ribattezzato così dai romani per la sua bruttezza. E qui si vede il genio del popolo romano: trasformare un’opera che nessuno avrebbe ammirato in un simbolo di denuncia. La bruttezza del Babuino divenne metafora delle storture del potere, e i biglietti che vi si affiggevano erano altrettanto diretti e corrosivi. “Più brutto del Babuino, solo il cuore del tiranno,” recitava una pasquinata.
Il Facchino, in Via Lata, è l’unica statua parlante che non proviene dall’antichità classica. Raffigura un acquaiolo con una botte da cui sgorga acqua, un’immagine semplice ma potente. Qui la statua non parla degli dei né del potere, ma della vita quotidiana, del lavoro e della fatica. È il simbolo della gente comune, di chi porta sulle spalle il peso della città senza mai essere visto o riconosciuto. Anche i biglietti affissi al Facchino riflettevano questa dimensione, con messaggi che celebravano il lavoro e denunciavano le ingiustizie sociali.
Infine, c’è L’Abate Luigi, una figura togata che si trova nei pressi della Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Il suo nome deriva da un custode che gli somigliava, ma il suo significato va oltre. L’Abate Luigi rappresenta il saggio disilluso, il custode del tempo che osserva il presente con una certa malinconia. I biglietti affissi alla sua base erano spesso riflessivi, più filosofici che satirici, ma sempre pieni di una verità tagliente.
Queste statue, nel loro silenzio apparente, hanno parlato per secoli. Hanno dato voce a un popolo che altrimenti non avrebbe avuto modo di farsi sentire. E oggi, anche se le pasquinate non vengono più affisse e il dissenso si è spostato sui social media, il loro messaggio rimane. Sono un monito, una testimonianza di come la parola, anche quando censurata, riesca a trovare il modo di emergere. E a Roma, dove tutto è eterno, persino il dissenso ha trovato un modo per non morire mai.