Quando il passato brilla troppo, la fuliggine manca a tutti: due restauri che hanno reso Michelangelo e Viollet-le-Duc influencer postumi del dibattito culturale.
Il restauro di Notre-Dame de Paris, avviato dopo il devastante incendio del 15 aprile 2019, ha sollevato una quantità di polemiche che non si vedevano dai tempi di un altro celebre restauro: quello della Cappella Sistina tra il 1980 e il 1994. Due operazioni di conservazione epocali, due monumenti che incarnano l’essenza di epoche diverse, eppure unite da un destino comune: diventare il fulcro di accesi dibattiti culturali, tecnici ed estetici. Tra gocce di solventi chimici e pietre “troppo pulite”, colori abbaglianti e decisioni politiche discutibili, entrambi i restauri ci offrono uno spaccato delle tensioni che accompagnano ogni tentativo di dialogo tra passato e presente.
Partiamo da Notre-Dame, o meglio, dalla sua “rinascita”. L’incendio che ha devastato il tetto e la celebre guglia ottocentesca di Viollet-le-Duc è stato un trauma collettivo, seguito da un annuncio quasi messianico del Presidente Emmanuel Macron: la cattedrale sarebbe stata ricostruita entro cinque anni. Una promessa che, con il senno di poi, appare tanto ambiziosa quanto pericolosa, considerando la complessità del monumento e il rischio di sacrificare la qualità sull’altare della rapidità.
Eppure, i lavori sono stati completati, e la nuova Notre-Dame si appresta a riaprire al pubblico. Ma è ancora la stessa cattedrale? La risposta dipende da chi si interroga. Per i puristi, la decisione di ricostruire “com’era, dov’era” è stata una scelta obbligata, un tributo all’identità storica della cattedrale e al genio di Viollet-le-Duc. Tuttavia, non sono mancate le critiche di chi vedeva nell’incendio un’occasione per un intervento più innovativo. Progetti come quello di Norman Foster, che immaginava una guglia in vetro e titanio, sono stati rapidamente accantonati, ma non senza lasciare strascichi polemici.
Il risultato finale, almeno sul piano estetico, ha generato sentimenti contrastanti. La pulizia delle superfici interne ha rivelato una luminosità mai vista prima, con la pietra “bionda” delle pareti che riflette la luce in modo quasi ultraterreno. Per alcuni, è un trionfo della tecnica e della bellezza originaria; per altri, è un tradimento dell’atmosfera austera e mistica che caratterizzava la cattedrale prima dell’incendio. La domanda che molti si pongono è questa: la nuova Notre-Dame è ancora fedele alla sua anima, o è diventata una versione “deluxe” di sé stessa, una cattedrale per l’era di Instagram?
Non meno accesa è stata la questione delle vetrate. L’idea di sostituire alcuni pannelli con opere moderne, proposta da alcuni studiosi e artisti, è stata respinta con fermezza. La Commissione Nazionale del Patrimonio ha optato per un restauro fedele, preservando le vetrate originali e scongiurando il rischio di contaminazioni contemporanee. Tuttavia, anche questa scelta ha suscitato perplessità: era davvero necessario mantenere tutto immutato, o c’era spazio per un dialogo tra passato e presente? La decisione finale sembra riflettere un desiderio di sicurezza più che una visione coraggiosa.
E poi c’è la questione del tempo. I cinque anni promessi da Macron sono stati rispettati, ma a che prezzo? Le deroghe legislative adottate per accelerare i lavori hanno suscitato non poche critiche, con alcuni esperti che temevano che la velocità potesse compromettere la qualità. È il classico dilemma tra l’efficienza e la profondità, tra il “fare presto” e il “fare bene”. Se a ciò si aggiunge la proposta di introdurre un biglietto d’ingresso per i turisti, il quadro si complica ulteriormente. La ministra della Cultura Rachida Dati ha proposto un ticket di 5 euro per finanziare il restauro di altre chiese francesi, ma l’idea ha incontrato la resistenza della Diocesi di Parigi e di molti storici dell’arte, che vedono nella gratuità un principio fondamentale.
Queste polemiche, tuttavia, non sono un’esclusiva di Notre-Dame. Anche il restauro della Cappella Sistina, avvenuto decenni prima, ha sollevato dubbi e critiche simili. Gli affreschi di Michelangelo, ricoperti da secoli di fuliggine, sono stati riportati alla luce con una brillantezza che ha sorpreso (e sconcertato) il mondo. Per i sostenitori, è stato un trionfo della tecnica, che ha rivelato il genio cromatico di Michelangelo in tutta la sua gloria. Per i detrattori, invece, l’uso di solventi chimici ha rimosso non solo la sporcizia, ma anche parti dell’opera originale, trasformando la Cappella Sistina in una versione troppo “nuova” di sé stessa.
In entrambi i casi, il problema centrale è il rapporto tra autenticità e interpretazione. Restaurare un capolavoro significa riportarlo al suo stato originario, o significa riscriverlo alla luce delle sensibilità contemporanee? Notre-Dame, con la sua luminosità abbagliante e la sua ritrovata perfezione, sembra strizzare l’occhio a un’estetica moderna, mentre la Cappella Sistina, con i suoi colori vibranti, è stata accusata di tradire la profondità e la gravitas originarie.
Ma forse la vera domanda è un’altra: cosa vogliamo davvero da un restauro? Vogliamo preservare il passato così com’era, o vogliamo reinterpretarlo per il presente? La risposta, come sempre, dipende dal punto di vista. Per alcuni, il restauro è un atto di amore e rispetto; per altri, è un tradimento. Quello che è certo è che né Notre-Dame né la Cappella Sistina saranno mai più le stesse. E forse, in fondo, è proprio questo il destino dei capolavori: continuare a cambiare, a stupire e a far discutere, anche (e soprattutto) quando sembrano immobili.