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Roma, Sala Umberto: Bidibibodibiboo. La nostra recensione

Recensione del nostro Davide Oliviero

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Roma, Sala Umberto: il palcoscenico si accende di umorismo nero e delicatezza con Bidibibodibiboo, un’opera di notevole impatto emotivo e di elevato valore drammaturgico. Il testo e la regia portano la firma di Francesco Alberici, figura di spicco per la sua ironia tagliente e per la capacità di mettere in scena, con uno sguardo lucido e impietoso, la cruda realtà del mondo del lavoro contemporaneo. Alberici, vincitore del Premio Ubu 2021 come Miglior attore/performer under 35 e protagonista della serie web Educazione Cinica, si conferma una delle voci più autorevoli e affilate del panorama teatrale italiano.

Con una combinazione di grande tenerezza e dissacrante ironia, lo spettacolo di Francesco Alberici presenta diverse caratteristiche che lo rendono un esempio emblematico della drammaturgia contemporanea. Tra questi elementi, spicca il livello dell’autofiction, in cui l’autore si trasforma in attore e l’attore si fa portatore di aspetti biografici, creando un intreccio complesso e ambiguo tra realtà e finzione.

Inoltre, la rappresentazione si distingue per la partecipazione attiva del pubblico, che non è più semplice spettatore passivo, ma partecipa alla costruzione dell’azione scenica, rompendo la quarta parete e divenendo elemento attivo della rappresentazione. Questo livello partecipativo contribuisce a rendere il pubblico parte integrante della narrazione, fornendo una dimensione di coinvolgimento che va oltre la pura fruizione dell’opera.

L’opera si muove agilmente tra narrazione e meta-narrazione, tra rappresentazione e meta-rappresentazione, creando un gioco raffinato che sfuma continuamente i confini tra le diverse dimensioni teatrali, quasi come una modulazione musicale che esplora toni e registri differenti. Questo approccio evidenzia l’influenza dell’arte contemporanea, dove la riflessione su se stessi e sull’atto artistico è parte integrante del messaggio.

Il nome della multinazionale che viene rappresentata come soggetto oppressivo nei confronti del fratello del protagonista non viene mai esplicitamente menzionato. Questo silenzio suggerisce un contesto più ampio e universale, in cui il potere delle grandi aziende assume connotazioni generali e simboliche. Il mancato ricorso alla verosimiglianza tradizionale, con il personaggio del fratello interpretato da tre attori diversi, incluso Alberici stesso, evita inoltre un facile effetto di denuncia sociale, superando i limiti del cosiddetto ‘teatro civile’.

Una delle battute chiave dello spettacolo, una sorta di dichiarazione di poetica, riassume questo approccio: “un formale fallimento di tentativi scenici”. Questa frase, pronunciata nella seconda parte dello spettacolo, sintetizza la volontà di non risolvere la tensione narrativa attraverso risposte certe o rassicuranti, ma di abbracciare la complessità e l’incertezza insite nel processo creativo. L’intero spettacolo si può leggere attraverso questa lente: la tensione non si sviluppa verso una facile denuncia, ma si concentra sulle dinamiche relazionali, sugli effetti della situazione sui personaggi e sui rapporti di potere, in una rappresentazione in cui il privato si mescola costantemente con il collettivo. Alberici si interroga su temi filosofici fondamentali, come la natura dell’identità individuale in un contesto sociale sempre più spersonalizzante e la tensione tra il bisogno di affermazione personale e la sottomissione alle dinamiche del potere istituzionalizzato. La filosofia esistenzialista è palpabile nella maniera in cui il protagonista è spinto verso la disperazione: la sua lotta è quella di un individuo che cerca un senso all’interno di un sistema che sembra progettato per svuotare di significato ogni azione. Questo approccio induce il pubblico a confrontarsi con la precarietà della condizione umana, che qui si manifesta non solo come precarietà lavorativa, ma anche come una crisi di significato e di appartenenza.

L’opera affronta anche il concetto di ‘fallimento formale’, inteso come impossibilità di raggiungere una rappresentazione esaustiva della realtà. In questo senso, il teatro diventa uno spazio in cui esplorare i limiti della conoscenza e dell’esperienza, un luogo dove la verità non è mai assoluta ma sempre frammentaria e parziale. La riflessione filosofica si estende anche alla percezione del tempo e al suo scorrere, evidenziando la ciclicità delle situazioni che i personaggi vivono e l’impossibilità di evadere da certi schemi imposti dalla società contemporanea.

Alcuni dei momenti più efficaci sono quelli in cui il dialogo supera i registri naturalistici per esplorare territori di rappresentazione più ironici e paradossali. L’intervista al fratello, condotta come in un talk show interiore, e il confronto tra madre e figlio, simile a un duetto che fonde l’opera con il cabaret, sono esempi di come l’ironia possa essere utilizzata per approfondire la complessità delle relazioni umane. L’intero lavoro si muove su una linea sottile, dove la domanda fondamentale è “chi siamo all’interno di tutto questo”, inducendo lo spettatore a riflettere senza fornire risposte univoche, ma lasciando aperti molti interrogativi. La trama si concentra sulla figura di un giovane impiegato assunto a tempo indeterminato in una grande azienda, che ben presto si ritrova intrappolato in una spirale persecutoria, vittima di un superiore che lo sospinge verso il baratro della disperazione. Attraverso una narrazione essenziale ma incredibilmente penetrante, il pubblico è trascinato nel tormento, nell’angoscia e, infine, nella liberazione del protagonista, in un crescendo di tensione emotiva che non lascia spazio a compromessi.

La messa in scena, realizzata in coproduzione con SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, CSS Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia, Ente Autonomo Teatro Stabile di Bolzano e il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, è un perfetto equilibrio tra testo, regia e scenografia. Le scene, curate da Alessandro Ratti, riescono a dare forma al clima claustrofobico dell’ufficio, attraverso un uso minimalista degli spazi che amplifica il senso di alienazione del protagonista. Gli ambienti spogli e quasi spersonalizzati accentuano la sensazione di trovarsi in un luogo dove l’individuo è destinato a perdere la propria identità, sommerso da una gerarchia anonima e opprimente. Questa scelta scenografica evoca soluzioni adottate nel teatro di Pinter o nel teatro dell’assurdo, dove la scena minimale diventa funzionale a sottolineare l’estraneità e la vulnerabilità dei personaggi.

Le luci disegnate da Daniele Passeri sono parte integrante del linguaggio scenico, contribuendo a sottolineare le emozioni dei personaggi e alternando momenti di opprimente oscurità a lampi di luce abbagliante, quasi a voler rappresentare gli attacchi e i momenti di consapevolezza del protagonista. Il disegno luci si fa così dispositivo drammaturgico, amplificando la narrazione e rendendo palpabile la tensione emotiva. Questo uso sapiente delle luci è riconducibile a pratiche consolidate del teatro contemporaneo, dove il linguaggio visivo è impiegato per enfatizzare i conflitti interiori, come nelle produzioni di Robert Wilson, in cui l’illuminazione è fondamentale per la costruzione dell’atmosfera e della psicologia dei personaggi. Il lavoro tecnico è stato affidato a Fabio Clemente ed Eva Bruno, che hanno saputo valorizzare ogni sfumatura della messa in scena, trasformando ciascun elemento scenografico in un autentico supporto narrativo.

La recitazione del cast, composto da Francesco Alberici, Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi e Daniele Turconi, si distingue per la capacità di rendere con grande verosimiglianza la tensione e l’alienazione che pervadono la vita lavorativa del protagonista. Gli attori dosano sapientemente i toni dell’ironia e quelli della tragedia, creando un equilibrio che contribuisce alla profondità del messaggio dello spettacolo. Le interpretazioni si mantengono tutte di buon livello e mostrano un’attenzione particolare ai dettagli emotivi, offrendo una rappresentazione convincente della condizione di alienazione, non solo come dramma individuale, ma anche come riflesso di una condizione collettiva. Questo approccio rievoca il teatro di stampo brechtiano, in cui l’ensemble diventa strumento per rappresentare non solo il dramma del singolo, ma anche una problematica universale e condivisa

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Scritto da
Davide Oliviero -

Laureato in discipline umanistiche presso l'Università di Bologna sotto la guida del Professor Umberto Eco, ha avviato la sua carriera nell'archeologia classica, concentrandosi sulla drammaturgia greco-romana. Il suo interesse per il design lo ha spinto a seguire un corso triennale in design d’interni, continuando nel contempo a lavorare nel campo archeologico. Col tempo, ha sviluppato una passione per la scrittura e la musica classica, che lo ha portato a recensire opere liriche per 14 anni in teatri prestigiosi come il Teatro alla Scala, il Covent Garden e l’Opéra di Parigi. Ha inoltre curato contenuti culturali e musicali per diverse pubblicazioni. Negli ultimi anni ha scritto per la rubrica In Arte, trattando di mostre, teatro e arti letterarie a Roma, collaborando con istituzioni come le Scuderie del Quirinale e i Musei Vaticani. Ha recensito spettacoli teatrali, con particolare attenzione al musical e alla prosa, ed è accreditato presso i principali teatri italiani. La sua competenza lo ha reso un ospite frequente in programmi televisivi culturali, oltre a ricoprire il ruolo di giudice permanente per il Premio Letterario Andrea Camilleri. Attraverso i social media, promuove l’arte e la bellezza, fondendo abilmente leggerezza e profondità, rendendo questi temi accessibili a un vasto pubblico.

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