Sherlock Holmes NERI MARCORE’
Dottor John H. Watson PAOLO GIANGRASSO
Molly O’Neill FRANCESCA CIAVAGLIA
Ispettore G. Lestrade GIUSEPPE VERZICCO
Signora Hudson BARBARA CORRADINI
Mycroft Holmes – NICCOLÒ CURRADI
Michael Osborne – SIMONE MARZOLA
Robert Scott – MATTIA BRAGHERO
Pastore della Chiesa di Saint Mary-Le-Bow – RICCARDO GIANNINI
Cover di: Robert Scott / Pastore / Agente / Michael Osborne – LAPO BRASCHI
Produzione: Ad Astra Entertainment S.r.l., Compagnia delle Formiche, Artisti Riuniti
Supervisione e approvazione del testo a cura dell’Associazione Sherlockiana Italiana “Uno Studio in Holmes Aps”
Regia di Andrea Cecchi
Roma, 07 novembre 2024
“Sherlock Holmes – Il Musical” si presenta come un ambizioso tentativo di trasfigurare l’investigatore di Baker Street nel linguaggio del teatro musicale. Un progetto che ambisce a ricontestualizzare la celebre figura letteraria di Arthur Conan Doyle in una dimensione scenica dove la parola, la musica e il gesto si fondono per dar vita a un’esperienza sinestetica. Tuttavia, malgrado le premesse e la nobile intenzione di esplorare un nuovo registro artistico per il detective, lo spettacolo dimostra diverse criticità, che ne minano la realizzazione complessiva e impediscono di mantenere quella vivacità che ci si aspetterebbe da un’opera di tale portata.
La scenografia, curata nei minimi dettagli da Gabriele Moreschi, è senza dubbio uno dei punti di forza della produzione. La Londra vittoriana che Moreschi ricostruisce sul palcoscenico è suggestiva, caratterizzata da una precisione architettonica che rievoca le atmosfere gotiche e cupe della metropoli ottocentesca. Le strade immerse nella nebbia, i lampioni a gas che rischiarano i vicoli e le facciate degli edifici suggeriscono un contesto urbano vivo, palpabile, ricco di quel mistero che è parte integrante dell’universo holmesiano. La scenografia, tuttavia, sembra non trovare pieno sostegno negli altri elementi dello spettacolo, a partire dalla performance del protagonista.
Neri Marcorè veste i panni di Sherlock Holmes con una compostezza che, pur aderendo formalmente al personaggio, finisce per risultare eccessivamente contenuta e priva di quella tensione intellettuale che definisce il celebre detective. Holmes, nella penna di Conan Doyle, è un personaggio animato da una mente febbricitante, un investigatore che vive costantemente in bilico tra la lucidità analitica e un certo tormento interiore. Questa complessità psicologica non trova piena espressione nella recitazione di Marcorè, che appare troppo spesso distaccato, quasi inerte di fronte agli enigmi che dovrebbe risolvere. La presenza scenica di Holmes diviene così più passiva che attiva, privando il pubblico di quell’identificazione emotiva che è il cuore di ogni esperienza teatrale riuscita. Anche l’aspetto canoro di Marcorè non riesce a sopperire alle mancanze interpretative: il canto risulta privo di dinamiche emotive significative. Le arie di Holmes, che dovrebbero essere l’occasione per esplorare il suo mondo interiore, finiscono per apparire uniformi, senza quei picchi e quelle variazioni che possano comunicare la complessità dei pensieri del detective. Il personaggio di Holmes, di conseguenza, fatica a emergere come figura centrale e carismatica, rimanendo piuttosto un’ombra scolpita nella trama dello spettacolo.
In netto contrasto, la performance di Giuseppe Verzicco nei panni dell’ispettore Lestrade risulta la più convincente e vitale dell’intera produzione. Verzicco dona al suo Lestrade un’energia vivace e una presenza scenica che arricchiscono la narrazione. Lungi dall’essere un semplice comprimario, il suo Lestrade assume una centralità che funge da contrappunto al protagonista, riuscendo a portare in scena non solo la figura del funzionario di polizia, ma un personaggio tridimensionale, dotato di dinamismo e vivacità. Verzicco riesce a dare corpo a quella tensione necessaria tra l’ufficiale pragmatico e l’investigatore eccentrico, creando una dialettica scenica che è tra i momenti più riusciti dello spettacolo.
Francesca Ciavaglia, nel ruolo di Molly O’Neill, offre una prestazione elegante, caratterizzata da una delicatezza rispettosa che ben si adatta al personaggio, ma che non riesce a emergere se non in sporadici momenti cantati. Il suo contributo alla narrazione resta contenuto, aggiungendo una presenza delicata che non incide in maniera determinante sullo sviluppo drammatico. Analogamente, Barbara Corradini nel ruolo della Signora Hudson interpreta una figura rassicurante e di contorno, ma la sua partecipazione si limita a tratteggiare un’ombra domestica che non si impone mai realmente sulla scena se non durante il duetto con il collega Verzicco.
Sotto il profilo tecnico, il musical presenta alcune criticità che minano l’armonia dell’insieme indubbiamente migliorabili. In particolare, si notano problemi di sincronizzazione tra l’audio e le basi musicali, che compromettono la fluidità dello spettacolo e riducono il coinvolgimento emotivo del pubblico. Le musiche, curate da Andrea Sardi, sono efficaci nel rievocare l’atmosfera dell’epoca e risultano pertinenti al contesto narrativo, ma la mancanza di coesione tecnica impedisce loro di raggiungere quell’efficacia immersiva che sarebbe stata auspicabile. I momenti di sfasamento audio creano un distacco percettibile tra ciò che accade in scena e ciò che viene udito, interrompendo la sospensione dell’incredulità e distogliendo l’attenzione degli spettatori.
La regia delle luci, affidata a Emanuele Agliati, è uno degli elementi che maggiormente contribuiscono a creare la giusta atmosfera. Le luci sono utilizzate per plasmare chiaroscuri suggestivi, alternando scene intime e momenti più drammatici, e riescono a suggerire quella dimensione crepuscolare che è essenziale per un’opera come questa. Tuttavia, la potenzialità espressiva delle luci non è sufficientemente valorizzata da una regia che appare incerta nel trovare il giusto ritmo. Il risultato è una discontinuità tra la forza visiva delle luci e l’interpretazione scenica, che impedisce la creazione di un’unica tensione drammatica coesa.
Anche le coreografie di Roberto Colombo e Caterina Pini soffrono di una certa frammentarietà. I movimenti scenici, per quanto curati e armoniosi, non riescono a integrarsi pienamente con la narrazione. Le coreografie sembrano essere più decorative che funzionali, un abbellimento che arricchisce la visione d’insieme ma che non apporta un reale significato narrativo. Manca un legame profondo tra i movimenti e la storia che viene raccontata, e questo finisce per ridurre l’impatto emotivo delle scene danzate, che non riescono a raggiungere quella forza espressiva necessaria per rendere le coreografie parte integrante del dramma.
Un pubblico educato e partecipe ma non particolarmente coinvolto. Peccato veramente.