Un classico senza tempo, tra luci e ombre, che conferma il potere eterno del teatro di emozionare e coinvolgere il pubblico.
Portare in scena West Side Story al Teatro Sistina è un po’ come voler dipingere la Cappella Sistina con un pennarello: ambizioso, certo, ma non senza i suoi rischi. Nella versione adattata da Massimo Romeo Piparo, il musical leggendario si ripropone con un linguaggio “italianizzato” e una produzione dal respiro ambizioso. Tuttavia, il risultato è un mosaico di luci e ombre: se da un lato si colgono momenti di grande impatto, dall’altro emergono fragilità che impediscono di raggiungere la piena maturità artistica che un titolo così iconico meriterebbe.
Tra le luci spicca senza dubbio Luca Gaudiano, che nel ruolo di Tony riesce a offrire una performance di altissimo livello sul piano vocale. La sua voce si muove con eleganza e sicurezza, passando dai registri più lirici a quelli drammatici con una fluidità che testimonia una tecnica ben consolidata. “Maria”, il brano più iconico della partitura di Leonard Bernstein, brilla grazie alla sensibilità interpretativa di Gaudiano, che riesce a trasmettere al pubblico tutta la delicatezza e l’intensità del momento. Se vocalmente non si può che applaudire, la sua interpretazione recitativa lascia invece intravedere margini di crescita: il Tony di Gaudiano appare a tratti un po’ ingenuo, quasi fanciullesco, una scelta che se da un lato ne enfatizza l’idealismo, dall’altro limita la profondità drammatica del personaggio.
Natalia Scarpolini, nei panni di Maria, presenta una vocalità chiara e cristallina, ma la sua interpretazione fatica a raggiungere lo stesso livello del suo partner. Il timbro, pur piacevole, viene appesantito da vibrati eccessivi che non sempre sembrano necessari, mentre la proiezione vocale si rivela insufficiente nei momenti più corali, dove la sua presenza viene spesso sovrastata. Maria è un personaggio complesso, che richiede una gamma emotiva ampia e una capacità interpretativa in grado di restituire tutta la drammaticità del suo percorso, elementi che qui restano in parte inesplorati.
Il resto del cast si muove tra alti e bassi, cercando di dare solidità a una messa in scena che a volte sembra inciampare nei suoi stessi passi. Tra gli interpreti spiccano Antonio Catalano, che regala un Bernardo intenso e carismatico, e Rosita Denti, straordinaria nel ruolo di Anita. La Denti, con una presenza scenica energica e dinamica, domina ogni suo momento sul palco, restituendo al personaggio tutta la forza e la passionalità che lo caratterizzano. La sua interpretazione, vivace e spumeggiante, è uno dei punti di forza dello spettacolo, capace di risvegliare il pubblico anche nei momenti meno brillanti.
Un aspetto che lascia perplessi è l’adattamento in italiano dei testi. La scelta, per quanto motivata dall’intento di avvicinare l’opera al pubblico nostrano, finisce per sacrificare gran parte della musicalità e della forza emotiva dei testi originali di Stephen Sondheim. Alcune traduzioni suonano innaturali, quasi forzate, e sembrano tradire la natura stessa della partitura di Bernstein, che si nutre del ritmo e della sonorità dell’inglese. In un’epoca in cui il linguaggio si contamina continuamente grazie alle influenze globali, mantenere i testi nella loro lingua originale avrebbe probabilmente conferito maggiore autenticità e potenza alla messa in scena.
La regia di Massimo Romeo Piparo si limita a una gestione funzionale delle scene, consentendo al pubblico di seguire le dinamiche narrative senza però aggiungere un reale valore interpretativo. Non si percepisce una visione unitaria capace di esaltare i temi universali di amore, rivalità e tragedia che sono il cuore pulsante di West Side Story. Una regia più incisiva e coesa avrebbe potuto elevare le diverse componenti dello spettacolo, offrendo al pubblico un’esperienza più coinvolgente e memorabile.
Anche l’aspetto musicale presenta alcune criticità. L’orchestra dal vivo, composta da 18 elementi e diretta dal Maestro Emanuele Friello, svolge il proprio compito con professionalità, ma la riduzione orchestrale penalizza la profondità e la ricchezza timbrica che caratterizzano l’opera originale. Nei momenti più complessi della partitura, l’orchestra fatica a restituire la densità sonora che ci si aspetterebbe, lasciando una sensazione di incompletezza. Una formazione più ampia avrebbe probabilmente conferito maggiore potenza espressiva all’intera produzione.
Dove invece lo spettacolo brilla è nelle coreografie di Billy Mitchell, che riescono a catturare l’energia e la tensione drammatica dell’opera. I movimenti coreografici, eseguiti con precisione da un cast di oltre 30 artisti, offrono momenti di grande impatto visivo, rendendo omaggio alle creazioni di Jerome Robbins. Le scene di danza riescono a trasmettere tutta la vitalità e il dinamismo che caratterizzano West Side Story, rappresentando uno dei pochi elementi capaci di unire in maniera armoniosa la narrazione e l’estetica.
Infine, un’osservazione sulle dichiarazioni di Piparo, che in conferenze stampa non ha esitato a tracciare paragoni ambiziosi tra i cantanti lirici e gli interpreti del musical, sottolineando come questi ultimi debbano integrare recitazione, canto e danza. Per quanto stimolante, questa riflessione rischia di apparire vacua se non supportata da una messa in scena davvero all’altezza delle aspettative. Del resto, il Sistina non è il Teatro alla Scala di Roma. E direi che è assolutamente sciocco che lo sia: ogni teatro ha la propria identità e il proprio ruolo, e il paragone appare non solo inutile, ma anche fuorviante.
Nonostante alcune ombre, il pubblico ha accolto lo spettacolo con entusiasmo e partecipazione, dimostrando ancora una volta quanto la magia del teatro possa superare limiti e imperfezioni. Applausi calorosi e momenti di emozione condivisa hanno segnato la serata, a conferma del fatto che, quando l’arte performativa riesce a creare un legame autentico con il pubblico, il suo scopo ultimo è pienamente raggiunto.
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