scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024
co-creazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
Roma, 01 Novembre 2024
«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi.
La regia di Daria Deflorian è essenziale e tagliente, un esercizio di disciplina che si riflette nella scelta di uno spazio scenico volutamente spoglio, quasi ascetico. La scenografia, curata da Daniele Spanò, diventa una cassa di risonanza per l’alienazione della protagonista: un ambiente neutro, con pochi elementi, che suggerisce l’idea di uno svuotamento progressivo, di una realtà che si fa sempre più rarefatta man mano che Yeong-hye si allontana dalla società e dalle sue regole. La luce, disegnata da Giulia Pastore, è utilizzata come strumento narrativo: tagli netti e spazi ombrosi accompagnano il percorso della protagonista, sottolineando i momenti di crisi, il suo senso di perdita e, al tempo stesso, la sua ricerca di una nuova dimensione.
L’atmosfera sonora, curata da Emanuele Pontecorvo, è una presenza costante, quasi ossessiva, che scandisce il tempo del dramma. Suoni ripetitivi, a tratti disturbanti, contribuiscono a creare un ambiente sospeso tra sogno e realtà, in cui lo spettatore si trova immerso nelle stesse inquietudini della protagonista. È un’esperienza sensoriale totalizzante, in cui la dimensione sonora diventa parte integrante della narrazione, amplificando l’effetto straniante della messa in scena.
Gli attori non sono solo interpreti dei loro personaggi, ma diventano veicolo di simboli. La loro presenza è misurata, calibrata nei movimenti e nelle espressioni, come a voler sottolineare l’inevitabilità degli eventi. La ribellione di Yeong-hye è un atto che non può essere compreso da chi le sta attorno, ma che ha il potere di scuotere le fondamenta della loro esistenza. Le reazioni degli altri personaggi sono variegate: incredulità, desiderio, dolore. In ogni reazione, tuttavia, vi è l’incapacità di accettare l’altro nella sua unicità, di riconoscere la scelta di Yeong-hye come legittima e necessaria.
La regia riesce a rendere palpabile questo conflitto interiore e collettivo, creando una tensione che cresce progressivamente, fino a esplodere nella scena finale. Le piantine deposte sul proscenio dai personaggi non sono solo simboli di crescita e rinnovamento, ma rappresentano anche il fallimento di una società che non riesce a comprendere la scelta di chi decide di non conformarsi. Sono un atto di resa, ma al tempo stesso un segno di speranza, un tentativo di ristabilire un contatto con quella natura da cui Yeong-hye cerca di trarre nuova linfa vitale. Il percorso di Yeong-hye è una discesa verso una forma di libertà assoluta, una libertà che passa attraverso la negazione di tutto ciò che è umano, di tutto ciò che la lega al mondo. Il rifiuto della carne, il rifiuto del corpo come veicolo di piacere e di sofferenza, sono passi verso una condizione di purezza che ha il sapore dell’annullamento. È una ricerca di pace, ma è anche una fuga dalla realtà, un tentativo di sottrarsi alle regole e alle imposizioni di una società che non lascia spazio alla differenza.
Il simbolismo della rinuncia attraversa l’intera messa in scena: la carne gettata via, la nudità esposta senza pudore, il corpo che si fa sempre più leggero, quasi evanescente. Yeong-hye diventa il simbolo di una ribellione che non si accontenta di sfidare le convenzioni, ma che vuole distruggerle, andare oltre, raggiungere un punto di non ritorno. E in questo processo di autodistruzione c’è una bellezza conturbante, una forza che spaventa e affascina al tempo stesso. La scelta di Yeong-hye non coinvolge solo se stessa, ma investe anche tutti coloro che le stanno attorno. La famiglia, incapace di comprendere il suo rifiuto, reagisce con rabbia, con violenza, con un desiderio crescente di riportarla all’ordine. Il marito, la sorella, il cognato: ognuno di loro vede nella scelta di Yeong-hye una minaccia alla propria stabilità, un attacco al proprio mondo. E così, il rifiuto di mangiare carne diventa il punto di partenza per un conflitto che non riguarda solo il cibo, ma tocca le corde più intime dell’esistenza, mettendo in discussione l’identità, il desiderio, il bisogno di appartenenza. La relazione con il cognato, che vede in Yeong-hye un corpo da usare per la propria arte, è forse l’esempio più evidente di come la scelta della protagonista venga fraintesa e strumentalizzata. Il corpo di Yeong-hye, che lei cerca di liberare da ogni vincolo, diventa per gli altri un oggetto, uno strumento di controllo, un mezzo per soddisfare i propri desideri. La scena in cui il cognato dipinge il corpo di Yeong-hye, trasformandola in un’opera d’arte vivente, è una rappresentazione potente di questo conflitto: da un lato, il desiderio di Yeong-hye di essere libera, di non appartenere a nessuno; dall’altro, il tentativo del cognato di possederla, di renderla parte del proprio mondo.
‘La Vegetariana’ è uno spettacolo che colpisce per la sua intensità emotiva, per la capacità di portare sulla scena un conflitto che non riguarda solo la protagonista, ma che investe ogni spettatore, chiamandolo a riflettere sul significato della libertà, sul prezzo da pagare per essere veramente se stessi. Yeong-hye, con il suo rifiuto radicale, con la sua scelta estrema, ci mostra la bellezza e il terrore di una libertà totale, di una vita vissuta senza compromessi, senza paura. Una vita che, forse, non è fatta per essere vissuta, ma solo per essere sognata.