La prostituzione sacra, conosciuta anche come prostituzione culturale, rituale o del tempio, è una pratica che ha suscitato l’interesse degli studiosi per secoli. Anche oggi, questa tematica continua a coinvolgere e affascinare numerosi ricercatori, compresi quelli appartenenti agli ambienti accademici più rinomati. L’idea che nel mondo antico il sesso e la religione potessero coesistere in armonia, venendo accettati dalla comunità come due facce di una stessa medaglia, ha dato origine a molte teorie suggestive. Tuttavia, molte di queste teorie, per quanto intriganti, risultano poco plausibili.

Impressione di un sigillo a cilindro accadico con Inanna che poggia il piede su un leone mentre Ninšubur le sta di fronte in segno di obbedienza, c. 2334- 2154 a.C.

Le origini della pratica della prostituzione sacra risalgono alla Mesopotamia del III millennio a.C., dove era istituita la cerimonia della ierogamia, un rito annuale che celebrava l’unione sacra tra il sovrano, impersonificatore del dio Dumuzi, e una prostituta che incarnava la dea Inanna, conosciuta negli ambiti accadici come Ishtar. Questo connubio rituale, eseguito all’interno del tempio, era inteso a garantire la prosperità del raccolto, la fertilità degli armenti e il benessere generale del regno. Tali pratiche sono documentate altresì in Siria, Fenicia e Cipro, dove diversi autori classici, tra cui Luciano in “De Dea Syria”, Sant’Agostino e Virgilio, descrivono varie manifestazioni di tali cerimonie in onore di divinità come Adone e Astarte.

Rilievo in terracotta con rappresentazione della dea Ishtar (XIX-XVIII secolo a.C.) British Museum, Londra

In Mesopotamia, il fulcro di questa attività era il tempio di Ishtar, dea della fertilità. Al suo interno, un sistema gerarchico ben strutturato supportava una comunità di donne dedite a tale pratica. Al vertice si trovava l’alta sacerdotessa, spesso figlia del sovrano, che simboleggiava la dea stessa. A lei sottostavano sacerdotesse di diverso grado, le quali si distinguevano in prostitute sacre e meretrici di commercio, queste ultime operanti in locande e bordelli per l’accumulo di ricchezze. Erodoto, nel suo resoconto delle “Storie“, illustra la figura della prostituta commerciale, criticando un costume che vedeva ogni donna, almeno una volta nella vita, offrirsi nel tempio di Afrodite a chiunque le gettasse denaro, una pratica ritenuta disonorevole nonostante la sua sacralità apparente.

Si narra che le donne più avvenenti lasciassero presto il tempio, mentre quelle meno fortunate potessero rimanervi anche anni per soddisfare il loro debito verso la dea. Sebbene Erodoto potesse aver confuso le pratiche delle prostitute commerciali con quelle delle sacre, si osserva che le fenicie, in particolare, erano note per concedere favori sessuali agli stranieri, spesso ammaliando i marinai dai loro bordelli con vista mare. Inoltre, alcune iscrizioni da Sippar suggeriscono che certe donne babilonesi fossero assegnate a soddisfare i bisogni sessuali del personale militare, molti dei quali stranieri.

Uomini con prostitute raffigurati su vaso (hydria) attico a figure rosse di V secolo a.C.

Nonostante ciò, né le iscrizioni né le rappresentazioni artistiche confermano un legame diretto e inconfutabile tra queste pratiche e la loro natura sacrale. Le prostitute erano classificate in diverse categorie: le kharimatu, recluse nei templi; le shamkhat, vestite sgargiantemente; e le kezretu, note per i loro capelli ricci. Tra queste, le kharimatu erano quelle che Erodoto descrive come dedite al culto di Ishtar, sottolineando il ruolo sociale complesso e spesso ambiguo di queste donne. Questo contesto si rifletteva anche nell’antica Italia, come esplorato da Cristiano Panzetti, il quale descrive come i riti di prostituzione sacra fossero parte integrante delle cerimonie religiose pagane. Questi riti, che includevano matrimoni sacri e orge per propiziare la fertilità dei campi, erano retaggi di epoche preistoriche e si sono evoluti con l’introduzione di divinità maschili dal carattere eroico e guerriero e divinità femminili dalle connotazioni erotiche più marcate.

Con l’avanzare delle società e l’ingresso nell’era storica, questi antichi culti della fertilità sono stati istituzionalizzati nella forma della prostituzione rituale, intesa come invocazione agli dei per la fertilità della terra e della popolazione. La pratica veniva svolta tanto da donne libere, che partecipavano occasionalmente, quanto da vere sacerdotesse dedite in modo continuativo, riflettendo la complessità e l’ambiguità morale di tali pratiche, spesso mitigate dalle circostanze estreme come carestie o pestilenze.

Il Trono Ludovisi, proveniente da Locri e datato al V secolo a.C., presenta rilievi che illustrano scene di prostituzione sacra. La scena principale mostra una figura femminile emergente dall’acqua, identificabile con Venere/Afrodite, a causa del contesto marino che allude alla sua nascita dal mare. Sui lati del trono, altre raffigurazioni rafforzano il collegamento con la prostituzione sacra: a sinistra, una donna nuda suona un doppio flauto, un’immagine che nell’arte greca suggerisce solitamente una divinità o una prostituta, e in questo caso, l’assenza di attributi divini orienta verso la seconda opzione. Sul lato opposto, un’altra figura femminile brucia incenso, indicando chiaramente un contesto sacrale.

Queste immagini, collocate all’interno di un contesto cultuale legato ad Afrodite, suggeriscono la rappresentazione di rituali di prostituzione sacra praticati nel santuario di Afrodite a Locri Epizefiri. Vicino ai templi situati sulla costa di Pyrgi, porto dell’antica città etrusca di Cerveteri, sono state scoperte delle piccole stanze contenenti un bancone in muratura usato come letto, su cui si posizionava un materasso. Questo ritrovamento ha fornito una visione concreta dell’organizzazione logistica utilizzata per la realizzazione di parte del culto, confermando le testimonianze degli storici classici riguardo alla pratica della prostituzione sacra in questa area.

I rilievi del Trono Ludovisi, V secolo a.C. Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps, Roma.

Costantino, in un fervore di devozione cristiana, procedette alla chiusura dei santuari dedicati alla dea Afrodite, disseminati in Grecia, Asia Minore e Cipro. In questi luoghi sacri, ogni espressione dell’amore carnale veniva celebrata e santificata sotto l’egida della divinità. Tuttavia, l’imperatore non estese la sua azione repressiva fino a Napoli, dove, fino all’epoca di Carlo I d’Angiò nel 1280, sopravvisse l’antichissima usanza della “crypta neapolitana“.

Crypta neapolitana.

Questo rifugio sotterraneo, oggi nascosto dietro la chiesa di Piedigrotta, offriva alle donne sterili la possibilità di cercare la fertilità attraverso l’unione sessuale con uomini che vi si recavano, spesso su invito esplicito di quelle stesse donne desiderose di superare la loro condizione mediante un metodo allora considerato altamente rispettabile. Per completare il quadro storico, è doveroso menzionare che nel Medioevo, nella regione di Pozzuoli, presso il villaggio di Tripergola, poi sepolto dall’emersione del Montenuovo nel 1538, si trovava la sorgente Silvania.

Quest’acqua era celebre per le sue presunte proprietà fecondanti, tanto che le donne vi si immergevano, talvolta in compagnia di giovani stranieri, perpetuando un rito di fertilità di chiara matrice preistorica. Questi elementi di cultura profondamente radicata nel sacro, eppure al contempo marginalizzati dalle emergenti dottrine monoteistiche, rappresentano un filo diretto che lega la pratica antica alla modernità, mostrando come tradizioni apparentemente arcaiche possano essere reinterpretate o riadattate per rispecchiare o sfidare le norme e i valori di una società in continua evoluzione.