Nel cuore della trasformazione infrastrutturale di Piazza Venezia, l’artista italiana trasforma i silos della metro C in un’opera partecipativa, visiva e concettuale. Un intervento site-specific che dissolve il confine tra arte pubblica, memoria condivisa e costruzione del futuro.
Nel lento dispiegarsi di un progetto già avviato, che ha scelto di abbracciare la transitorietà del cantiere come superficie di contatto tra arte e infrastruttura, giunge ora la seconda tappa di un percorso che non procede per accumulo ma per trasformazione. L’intervento di Marinella Senatore — parte integrante del ciclo installativo che ha già visto Pietro Ruffo inaugurare il processo — non segna un inizio, ma una deviazione, un rilancio concettuale, un movimento centrifugo. Qui non si parla più dell’opera come oggetto concluso, né dell’artista come autore isolato: si entra piuttosto in una grammatica visiva che sfida la fissità del supporto e dissolve la cornice tradizionale del luogo espositivo.
Senatore agisce su dieci silos che diventano, sotto il suo intervento, vettori di un’energia comunitaria, corpi verticali che, più che sostenere, elevano. “Ci eleviamo sollevando gli altri” non è un titolo, è un assioma operativo, un cortocircuito semantico che si propaga attraverso motivi iconici, pattern luminosi, stratificazioni di colore che richiamano architetture festive e coreografie urbane. In questo senso, l’artista non decora, ma inscrive una possibilità: quella che anche un luogo residuale, sospeso nel tempo funzionale della costruzione, possa diventare punto di aggregazione immaginativa. Il riferimento alle piazze barocche non è mimetico, ma strutturale: è l’eco di una teatralità civile che si rigenera attraverso nuove forme di visibilità collettiva.
Il cantiere stesso si trasforma, non in scenografia, ma in piattaforma. Il silos non è più oggetto opaco ma superficie diafana su cui il tempo del lavoro e quello della cultura si intrecciano. L’installazione non impone un’interpretazione ma attiva un campo percettivo. C’è in tutto questo un’idea di arte come intensità diffusa, come fenomeno interstiziale, come atto corale. E Senatore, con la sua pratica relazionale, costruisce uno spazio che è al tempo stesso monumento e manifestazione, dichiarazione e apertura.
Nell’incontro con la materia grezza del luogo — il cemento, il metallo, l’architettura provvisoria del cantiere — l’artista innesta elementi visivi che rimandano alla botanica, alla fotografia, alla storia dell’ornamento urbano. Ma nulla è decorativo. Ogni figura, ogni motivo, ogni taglio cromatico partecipa a una rete di connessioni che riconfigura il rapporto tra singolo e collettivo, tra stratificazione storica e urgenza contemporanea. Ciò che emerge è un’estetica del dialogo, un esercizio di prossimità, una mappa aperta di sensibilità e memoria condivisa.
L’operazione, resa possibile da una collaborazione trasversale fra istituzioni culturali, enti pubblici e soggetti costruttori, si situa dentro un pensiero più ampio sulla funzione pubblica dell’arte. Non come abbellimento, non come intrattenimento, ma come costruzione attiva di senso nel contesto urbano. Piazza Venezia, cuore simbolico e nevralgico della città, diventa così non lo sfondo, ma il soggetto stesso dell’opera: un luogo in attesa che prende parola, che si mostra, che invita.
Con Marinella Senatore, il cantiere si fa superficie porosa, luogo d’ascolto e di passaggio, traccia mobile di un’idea di arte che si misura con la realtà senza cedere al cinismo del presente. Un gesto che non vuole durare in eterno, ma che nella sua temporaneità afferma con forza la possibilità che anche ciò che è provvisorio possa contenere una verità. Una verità fatta di luce, ritmo, relazione.